un po’. Perché la vita dev’essere così dura per lei? Cos’è che ti spaventa tanto, Clairey?
E continuava: Clairey era tornata in anticipo dal suo primo pigiama party. Clairey si era rifiutata di salire sul palco quando un mago l’aveva scelta nel pubblico come sua assistente speciale. Clairey era troppo timida per ordinare da sola al ristorante. Clairey si rintanava in camera sua quando le ex compagne di college di mamma venivano a trovarla con i figli al seguito.
Cosa dire di quelle registrazioni? Ascoltarle era devastante, umiliante, tremendo. Mi sarebbe piaciuto tanto tornare indietro e dire a mia sorella che non sarei rimasta quella bambina strana per sempre. Crescendo avrei trovato amici, fidanzati, un buon lavoro, una vita. Ma cosa avrebbe pensato se mi avesse vista in quel momento, appostata nell’ombra e nascosta come una bimba spaventata, a racimolare informazioni su Clive Richardson come farebbe un collezionista stravagante? Esisteva forse una prova più tangibile del fatto che i timori di Alison si erano avverati? Gli amici, i fidanzati, il lavoro – avevo ottenuto tutto, sì, ma quelle cose mi appartenevano davvero? Ero davvero io quella persona? Non hai sentito che ha detto Alison? La bambina strana. Una vigliacca. E come sarebbe stato a parti inverse? Lei avrebbe saputo cosa fare. Senza paura. Avrebbe fatto tutto il necessario. Cos’è che ti spaventa tanto, Clairey? Rimasi seduta sul letto, con le ginocchia strette al petto e l’eco delle sue parole, gli occhi velati di lacrime. Sfregai le dita e per la prima volta dopo anni sentii quel prurito familiare. Sollevai l’indice a mezz’aria. A-L-I-S-O-N.
Sapevo cosa fare.
Quella sera il vento era fortissimo, la notte di Brooklyn era di un inimitabile color nocciola. Arrivai alla fermata di fronte al Little Sweet prima del solito e, in attesa di Clive, finsi di passare in rassegna gli scaffali dell’alimentari. Puntuale come sempre, lo vidi risalire il marciapiede. Era entrato nel ristorante solo da pochi secondi quando attraversai. Raggiunto l’ingresso, esitai giusto un istante. Poi aprii la porta.
Le notti passate a tallonare Clive non mi avevano preparato a tanta vicinanza. Mi misi in fila alle sue spalle, appena pochi centimetri da lui. Sentivo l’odore del suo dopobarba. Riuscivo a vedere il punto in cui i polsini della giacca a vento gli si erano consumati. Le mani – i polpastrelli che tamburellavano sulla gamba mentre aspettava il turno. Non ce l’avrei mai fatta. Stavo per voltarmi e correre via quando una voce, forte e chiara, mi risuonò in testa. Datti una calmata, Clairey. Mettiamola così: lui è solo quello che ti ha ritrovato il telefono un paio di settimane fa e tu sei una ragazza a cui piace scovare l’autentico cibo etnico, state solo per conoscervi meglio. Restai lì dov’ero. Mi concentrai sulle mani di Clive fino a convincermi che non erano neanche le sue mani, non quelle mani, e così sentii il terrore placarsi. Nei mesi a venire, avrei giocato a quel gioco più e più volte. Sdoppiavo Clive Richardson: c’era l’uomo con cui Alison aveva trascorso l’ultima notte della sua vita a Saint X, e poi c’era l’uomo seduto in quel ristorante di Brooklyn, e non erano la stessa persona.
Quando alzò la testa, abbozzai un sorriso educato e poi finsi una reazione a scoppio ritardato, come se lo avessi appena riconosciuto.
“Clive, giusto?”
“Sì…”
“Emily,” dissi. “Il mese scorso mi ha ritrovato il telefono.”
Lui sospirò. “Giusto. È un piacere vederla di nuovo.” Mi guardava di sbieco, e io gli leggevo una domanda negli occhi: ma che ci fa lei qui?
Dai, Clairey. Sai già cosa dire.
“Dopo averla incontrata qui, ho cercato il ristorante e ho letto recensioni entusiaste. Allora ho pensato che valesse la pena provarlo.”
La credibilità con cui m’inventai quella spiegazione mi sconvolse. Chiunque mi avrebbe presa per una di quelle ragazze sempre a caccia delle arepa, del curry, dei dim sum migliori della città. Forse la mia dimestichezza con le bugie, la facilità con cui vestivo i panni di qualcun altro, avrebbero dovuto mettermi in guardia, ma non andò così. Alison era raggiante. Ben fatto, Clairey.
“Stufato Pepperpot e Carib, caro?” domandò la donna alla cassa quando arrivò il turno di Clive. Era bassa e tarchiata, portava i capelli rasati.
“Sì, signora Vincia,” disse Clive.
“Stufato e Carib, stufato e Carib,” schiamazzò la donna scodellando una sbobba rossiccia in un piatto di plastica. “Abbiamo compagnia stasera?” domandò, e posando su di me il suo sguardo si fece più severo.
“Ah, non siamo…” fece per dire Clive.
“Mi chiamo Emily.”
Lei mi squadrò con aria perplessa. “E cosa prendi, Emily?”
Studiai il menù illuminato. Avrei voluto scegliere