strada e gridano: “Agente Roy! Agente Roy!” solo per salutarmi.
Quando i più grandi organizzano un festino notturno a Little Beach, sono costretto a interromperlo ma cerco di non andarci giù pesante. Cerco di ricordarmi che ai bei tempi anche io me la sono spassata a Little Beach. Mentre raccolgono la spazzatura, li sfotto un po’. Se vedo un ragazzo e una ragazza spuntare dai cespugli grido: “Lei è troppo per te, amico!” Se vedo un ragazzetto troppo mingherlino per la sua età, gli faccio: “E il poppante chi l’ha invitato?”
Se li sorprendo a tirare tardi davanti al Perry, nella capitale, accosto e dico: “Questo è vagabondaggio. Sono costretto a segnalarvi.” Dovreste vedere la faccia di quelli più duri, sembra che stiano per farsela addosso finché non scoppio a ridere.
“Ehi, amico, non fare certi scherzetti” dicono, ma non si arrabbiano sul serio.
“Accendile, agente Roy!” implorano quando sto per andare via. “Per favore, agente Roy.” Allora io accendo le luci e la sirena e mi allontano al suono delle loro esultanze. Abbiamo stabilito un legame, in un certo senso. Li vedo crescere, questi ragazzi, e faccio la mia parte.
Edwin e Gogo, quando erano ancora dei mocciosi li cacciavo sempre dalla torre radio. Io e il padre di Gogo siamo cresciuti insieme, pace all’anima sua. Li fermavo sempre insieme a quegli scalmanati dei loro amici per guida in stato d’ebrezza e li portavo dentro a farsi una dormita. Non l’ho mai vista come una punizione. Non li ho mai schedati. Li proteggevo dalla stupidità della gioventù, proprio come si allontana un bambino troppo vicino alla riva. Io e mia moglie non possiamo avere figli. I ragazzi dell’isola sono i miei figli.
Avrò beccato Edwin e Gogo centinaia di volte prima di quella notte. Ecco come ho capito che era successo qualcosa di grave e che c’entravano anche loro. Perché nel novantanove percento dei casi avevamo sempre riso e scherzato mentre li portavo in centrale. Ma quella notte, la notte in cui Alison Thomas è morta, nessuno dei due fiatò.
EMILY DA PASADENA
Il primo giorno delle elementari, dopo la foto di rito scattata da mio padre in cui indosso il grembiule viola, mia madre mi preparò all’incontro con Cody Lundgren un attimo prima che salissi sullo scuolabus giallo. Si abbassò in modo da guardarmi dritto negli occhi e mi disse che in classe ci sarebbe stato un bambino diverso dagli altri e che non dovevo aver paura ma, al contrario, riservargli una gentilezza maggiore. Nella mia immaginazione infantile, pensai che fosse semplicemente l’ennesima novità della scuola. A scuola prendevi il bus e imparavi a leggere (io però sapevo già leggere, e me ne vantavo anche), facevi la ricreazione, i compiti a casa ed eri particolarmente gentile con il bambino diverso. Ero timida, ma anche impaziente e timorosa all’idea di tante nuove conquiste.
Quella mattina, appena lo vidi, capii subito che non avrei rispettato le raccomandazioni di mia madre. Cody Lundgren mi spaventava a morte. Muoveva braccia e gambe a scatti. Aveva la bocca spalancata. La saliva gli si accumulava sul labbro inferiore e sgocciolava in filamenti luccicanti, bagnandogli la camicia. Ma la cosa più atroce erano i versi che emetteva, gorgoglii grassi intervallati da lamenti acuti. Ogni giorno, mentre noi imparavamo a contare o studiavamo le farfalle – larva, crisalide, pronta al volo – Cody restava con l’insegnante di sostegno, faceva i suoi versi e qualche volta si lasciava andare a terribili scatti d’ira.
Poi, un lunedì di febbraio, Cody Lundgren non venne a scuola. La maestra, la signorina D’Elia, ci fece disporre in cerchio e ci disse che Cody era morto durante il finesettimana. Chiese a ognuno di noi di condividere un bel ricordo di Cody. Già all’epoca mi colpì l’insensatezza di quell’esercizio, basato sull’idea che dei bambini di sei anni fossero dotati di una capacità di penetrazione tale da partorire un aneddoto piacevole su Cody. (La signorina D’Elia era nuova, e più di una volta avevo sentito mia madre parlare al telefono con altre mamme e definirla “un pesce fuor d’acqua”, espressione che mi faceva immaginare la signorina D’Elia con una cuffia gialla, mentre si esibiva in una coreografia di nuoto sincronizzato, le gambe che mulinavano senza sosta sotto la superficie.) Tutti gli altri bambini condivisero lo stesso identico ricordo, i cupcake che la mamma di Cody aveva preparato per il suo compleanno. Non erano di quelli fatti in casa che le altre mamme disponevano nei contenitori; erano eleganti cupcake di pasticceria, decorati con fiori di zucchero e perfette spirali di crema al burro. Quel ricordo