cui conoscessi il nome. L’inverno iniziò così.
Era passata una stagione intera da quando avevo rintracciato Clive Richardson. Avevamo conversato per intere settimane, e la situazione aveva subito un ribaltamento paradossale. Sulle prime, la nostra vicinanza mi terrorizzava. Adesso era il contrario. Quando eravamo lontani diventavo nervosa, agitata, irrequieta, sensazioni che s’inasprivano finché non tornavo a sedermi di fronte a lui, con i piatti di stufato e la birra. Se mi accorgevo che era pronto ad andarsene e mi tollerava solo per educazione, mi sorprendevo a tirare per le lunghe la serata perché, andato via lui, sarebbe subentrata la paura e io avrei dovuto affrontare le interminabili ore notturne da sola con lei.
Se non eravamo insieme, Clive era il mio pensiero fisso. In apparenza, potevo chiacchierare al telefono con mia madre dei prodotti biologici che era meglio acquistare (mirtilli, per forza; banane, anche no), oppure andare al lavoro sotto il nevischio, oltrepassando il reticolo di vetro e travertino del Grace Building, o magari consumare un pranzo a base di falafel insipidi con i miei giovani e brillanti colleghi, e riuscivo anche a essere convincente in tutte queste attività, ma di fatto ero con Clive. Inscenavo conversazioni ipotetiche che avrebbero condotto a una sua confessione. Immaginavo, per dirne una, che al Little Sweet scoppiasse un incendio; dopo essere riusciti a scappare, io mi sarei gettata tra le fiamme per mettere in salvo Vincia. Più tardi, vedendomi respirare grazie a una maschera a ossigeno sul retro di un’ambulanza, Clive sarebbe rimasto talmente colpito dal mio spirito di sacrificio e dalla mia bontà, e dalla sua stessa vergogna, da prostrarsi ai miei piedi e raccontarmi tutto. In un’altra fantasia, eravamo al ristorante Heidelberg nell’Upper East Side, intenti a trangugiare käsespätzle e sauerbraten innaffiati da boccali di Dunkel. Io gli facevo notare che quell’aforisma sull’impossibilità di entrare per due volte nello stesso fiume calzava a pennello a New York, un posto tanto transitorio quanto eterno, con i tedeschi della vecchia Yorkville sprofondati nel sedimento per lasciare il posto a nuovi snodi e insediamenti – Little Brazil, la zona nepalese di Jackson Heights. E Clive l’avrebbe trovata un’osservazione così penetrante da decidere di essere finalmente al cospetto di una persona degna del suo segreto.
Nello stesso periodo, l’inverno s’impossessò della città. Fu il più freddo di sempre, maledetto riscaldamento globale. Le navi rompighiaccio ridussero il fiume Hudson in lastroni. Agli incroci, i pedoni si destreggiavano intorno a pozze di liquame gelido, marroncino. I treni della metro puzzavano del singolare sudore dei giovani broker infagottati nei piumini imbottiti. L’inverno a New York era un periodo di una brutalità che diventava un fardello collettivo, di quelli in cui capita che un’occhiata fugace tra due sconosciuti sul marciapiede racchiuda un’intera conversazione sulle asperità della stagione. Eppure, non mi ero mai sentita più lontana dai miei concittadini. Mentre dicembre faceva il suo corso, iniziai a percepire una specie di lastra di vetro tra me e il resto del mondo, un confine talmente inespugnabile che, una sera, quando andai a sbattere contro un uomo uscendo dall’ufficio, rimasi così frastornata da infilarmi in metro quasi di corsa.
Ho già detto che Clive non parlava più di tanto della sua vita prima di New York e, in linea di massima, era vero. Eppure, non mancarono un paio di eccezioni alla regola di cui mi piacerebbe parlare, perché solo oggi mi rendo conto che mi avevano già rivelato tutto, mentre all’epoca non lo avevo capito. Si trattava di piccoli dettagli, buttati lì per caso: venni a sapere che l’uniforme scolastica di Clive era rosa e marrone. Che era cresciuto con sua nonna, ma non mi disse che fine avevano fatto sua madre e suo padre. Quando l’unico cinema dell’isola proiettò Ghostbusters, lui si intrufolava in sala tutti i pomeriggi alle tre e quarantacinque, giusto in tempo per vedere l’Uomo della pubblicità dei Marshmallow trascinarsi su Columbus Circle. (Ai tempi non sapeva che quella fosse Columbus Circle. Per lui New York, disse, era un turbinio di traffico, graffiti e personaggi mezzi matti, idea rimasta immutata per oltre dieci anni, fino al suo arrivo.)
Clive condivideva quegli aneddoti con la solita discrezione. Sceglieva con cura le parole, descriveva ogni episodio senza scendere troppo nei particolari. A volte cominciava a raccontarmi qualcosa, poi scuoteva la testa e s’interrompeva. “Non importa,” diceva. “È una storia noiosa.” Magari credeva che non avrei capito, e forse non si sbagliava. Spesso si prendeva delle lunghe pause, e io ipotizzavo che dentro di sé rivivesse gli aspetti taciuti dei suoi ricordi, e intuivo che erano