immobiliari definirebbero prestigiosi. Eppure, il piccolo bungalow era decisamente, e intenzionalmente, modesto. Quando io e mia madre, in macchina, superavamo i villoni nuovissimi o la brutta copia di una tenuta in stile spagnolo a Oak Knoll, lei se ne faceva beffe: “Quanto sono pacchiani,” ma io intuivo che avrebbe voluto dire molto di più – che quella gente si stava attirando le attenzioni dell’universo, mostrando alla luce del sole la propria fortuna quando invece avrebbe dovuto tenerla segreta.
La sera prima d’iniziare la terza elementare, annunciai ai miei che nella nuova scuola avrei usato il mio secondo nome. Percepii le occhiate eloquenti che si scambiarono sopra la mia testa.
“Va bene,” disse mio padre. “Puoi sempre ritornare a essere Claire se cambi idea.”
Non cambiai idea. Da quel giorno diventai Emily.
A Pasadena era tutta un’altra storia. Ero sempre stata una bambina riservata, suscettibile, molto più a suo agio in compagnia della famiglia che dei coetanei. Faticavo a fare nuove amicizie e mi ero abituata a stare da sola. Ma a Pasadena ero quella nuova e perciò suscitavo curiosità. Poco tempo dopo, già giocavo alla maestra in quell’enclave viola che erano le camerette delle altre bambine. Con mio stupore, mi ritrovai a condividere con loro l’intimità dell’amicizia. Ci confidavamo segreti; tiravamo fuori la lingua facendo sfiorare le punte, ridacchiando al contatto con quel muscolo nodoso e insapore; ci ricavavamo spazi sacri all’interno di quel mondo borghese ingessato – fortini e circoli, rifugi tra i rododendri. Le pulsioni che mi avevano a lungo afflitto erano sparite, evaporando nell’aria asciutta della mia nuova vita. Me ne dimenticai per tantissimo tempo, fino all’inverno dei miei venticinque anni, quando a New York si sarebbero verificati eventi destinati a cambiare tutto un’altra volta, e per sempre.
Un giorno mio padre doveva aver deciso di sviluppare i rullini della vacanza, perché pochi mesi dopo il trasloco trovai le foto nel suo studio, in fondo a un cassetto della scrivania. Ogni tanto m’intrufolavo nella stanza e le tiravo fuori. Le aveva fatte stampare in triplice copia. Non mi limitavo a un’occhiata veloce. Le passavo in rassegna a una a una con la stessa incredulità. Possibile che fosse successo? Una delle foto ritraeva me e Alison impegnate nella costruzione di un castello di sabbia. In un’altra, sorridevamo entrambe all’obiettivo di mio padre mentre la donna sotto l’ombrellone cencioso mi faceva le treccine. Poi una serie di immagini di Alison in posa accanto a una palma. Sul retro di una di queste, nel maiuscolo ordinato di mio padre, c’era scritto: LA MIA ALI. C’erano foto di Alison e mia madre che passeggiavano sulla spiaggia o in cui io esaminavo una conchiglia con espressione meravigliata… Nuotate, giochi, gite in barca e svariati tramonti d’inarrivabile bellezza. All’inizio, le riguardavo ogni volta che mia sorella mi mancava. Con il tempo, iniziai a cercarle quando non mi succedeva da un po’ e volevo sentirne la mancanza.
La differenza di undici anni tra me e Alison è notevole, e impone una spiegazione. Non sono stata un errore, i miei non hanno provato per anni a concepire di nuovo. Lo so perché in quinta domandai a mia madre come mai tra me e mia sorella ci fossero tutti quegli anni di differenza, al contrario dei miei amici con i loro fratelli. Mi rispose che all’inizio pensavano di volere solo un figlio. Ma poi si resero conto che fare i genitori gli piaceva troppo e decisero di avere me. Disse proprio così: “Decidemmo di averti.” Come se, presa la decisione di avere un altro bambino, già sapessero che sarei venuta fuori proprio io.
Quando me lo rivelò mi venne la nausea. Mi ricordai di quello che mio padre aveva detto al capo della polizia, quando domandò se mia sorella gli era sembrata strana nei giorni precedenti alla morte: “Alison è l’esempio perfetto di una ragazza che non desta preoccupazioni.” Quelle parole mi erano rimaste impresse, riaffiorando di tanto in tanto come un dolore assillante. Per affermare una cosa simile, dovevi sapere bene com’è avere un figlio che invece ti fa preoccupare eccome. Perciò nelle parole di mia madre avvertii l’insistenza menzognera nel ribadire che volevano proprio me. Non è che non mi amassero; mi amavano, chiunque ama i suoi figli. Ma di un amore diverso da quello per Alison. Dubito che avessero ben chiari i loro desideri quando decisero di avere un secondogenito. Si illudevano di voler crescere un altro bambino. In realtà, volevano crescere un’altra Alison.
Negli anni, mamma e papà non sono mai venuti meno ai loro doveri genitoriali. Mi hanno iscritto