peso inconsistente del corpo di Fazil che si adagiava sul materasso, e allora capì. Era stato il piccolo, silenzioso Fazil che non dava mai fastidio a nessuno. Ma sapeva anche che era inutile accusarlo perché Sachin non gli avrebbe mai creduto, accecato dalla rabbia com’era. “Non lo farei mai,” ripeté infine, inutilmente.
“Hai tempo fino a domani sera.” Sachin andò furioso in camera sua e chiuse la porta.
Non avrebbe dovuto buttar via il biglietto da visita di Ron Rawlins. Era stato un errore colossale. E sai che novità! La sera dopo, andò al Little Sweet. Aveva intenzione di rimanerci fino a chiusura, per poi trattenersi fuori fino alle due o tre di notte e, a quel punto, sperava che Sachin avrebbe sbollito la rabbia e se ne sarebbe andato a letto. Ordinò lo stufato e una Carib, poi prese un’altra birra e ancora un’altra. Vincia storse il naso ma non fece commenti. La radio era sintonizzata sulla stazione caraibica locale che trasmetteva una partita di cricket, Barbados Pride contro Leeward Island Hurricanes. Alla sesta birra, Clive riusciva a sentire sotto le dita l’erba del campo soffice come velluto. Chiuse gli occhi e pregò in silenzio di ritrovarsi nella cucina di sua nonna, quando li avrebbe riaperti. L’avrebbe sorpresa mentre sciacquava i piatti nel lavandino. Lei avrebbe scacciato una mosca e si sarebbe accigliata, e lui sarebbe stato felice.
Quando riaprì gli occhi, era ancora al Little Sweet, con il piatto vuoto davanti. Guardò la strada, oltre la vetrina. Sachin era immobile sul marciapiede, lo fissava dietro il vetro.
A quattordici anni, durante la breve storia d’amore tra la boxe e i ragazzi della scuola media Everett Lyle, Clive incassò un cazzotto in pancia così forte da fargli mancare il respiro. Apriva e chiudeva la bocca come un pesce spiaggiato, mentre aspettava di riprendere fiato per quella che gli parve un’eternità. Quella volta a pestarlo era stato Thomas Hinton, un tipo timido, carino, che andava forte tra le ragazze e che in seguito sarebbe diventato il capomastro dei giardinieri in uno dei resort sulla costa sud. Clive se la ricordava ancora la potenza di quel pugno, ma non ricordava di aver sentito dolore all’impatto. In parte fu dovuto all’adrenalina dello scontro, che gli pulsava in corpo mentre cercava di fare del suo meglio, accompagnato da un coro di urla e fischi. Ma se non si fece male fu soprattutto perché Thomas era suo amico. Come Damien e Des e Don e, proprio perché erano amici, il suo corpo in un certo senso si rifiutava di credere alla minaccia fisica dei loro pugni. Gli incontri nel giardino di Don non facevano mai male. Era il grande paradosso delle loro sfide. Se le davano di santa ragione per imparare qualcosa sulla violenza della mascolinità, eppure ogni colpo volava sulle ali dell’amore fraterno; lo percepivi chiaramente, così come sentivi il sapore ferroso del sangue che ti gocciolava dal labbro spaccato. Perciò, quegli incontri pomeridiani non lo avevano preparato a quello che sarebbe successo, in una gelida notte di febbraio a New York. Una volta fuori dal Little Sweet, aveva seguito Sachin oltre una rete metallica fino a un parcheggio deserto (al chiaro di luna i vetri rotti sbrilluccicavano come gelatina) e di lì a poco avrebbe capito che a rendere doloroso un cazzotto non è tanto la forza fisica, ma la carica di disprezzo che lo alimenta.
Ma perché aveva seguito Sachin? Questa domanda se la sarebbe fatta solo dopo, accasciato contro la rete metallica mentre sputava sangue a terra, con la faccia storpiata e gonfia. Non riusciva a spiegarselo. Sachin aveva piantonato l’ingresso del ristorante, era rimasto a fissare Clive con una freddezza spietata. Arricciando l’indice verso di sé, gli aveva fatto cenno di raggiungerlo fuori quasi in segno d’invito. Clive aveva sentito il suo corpo sollevarsi dalla sedia. Gli sembrò di avanzare verso ciò che aveva temuto per molto tempo, e cioè che Sachin potesse insegnargli qualcosa su se stesso, qualcosa di vero.
Arrivati al parcheggio deserto, Sachin barcollò sull’asfalto irregolare, poi agitò le braccia all’impazzata per tenersi in equilibrio. Era ubriaco fradicio. “È la tua ultima possibilità,” sbiascicò. La voce era acuta e ironica, quasi fossero i protagonisti di una messinscena recitata da cani, quasi trovasse esilarante la sua stessa collera.
“Non li ho presi io i tuoi cazzo di soldi,” grugnì Clive a denti stretti. D’improvviso si scoprì furibondo, ormai gli era chiaro che Sachin non era neanche sicuro che li avesse rubati lui, ma non gliene importava niente. Lo odiava e basta.
Un primo colpo sbilenco