in pace! Mi hai sentito? Stammi lontano!”
Lasciò che il portone si richiudesse alle sue spalle e sparì.
GOGO
Sarà stato il vento. O qualcuno dell’isolato accanto ha gridato: “No, no, no.” Un cane che abbaiava. C’è tutta una serie di spiegazioni per quello che ha sentito: una voce, che poi di sicuro non era neanche una voce vera, ha gridato quel nome. Nei giorni successivi, cerca di controllarsi. Se durante il turno si accorge che la mente inizia a correre troppo veloce, sintonizza la radio su un’emittente cristiana e si concentra sulle parole del sermone. Durante le passeggiate serali, quando si rende conto che il passo si fa nervoso, si sforza di rallentare. A casa, si tiene occupato: lucida i fornelli, si lava i denti per bene anziché limitarsi alla solita passata sbrigativa. Attacca perfino bottone con Cecil, ascoltando con interesse il racconto degli incredibili colpi di scena del talent show che ha visto la sera prima – un tizio sul monociclo ha soffiato il posto in finale a un mago. Annuisce mentre Cecil gli propina un discorso sui motivi del successo del programma, che senza dubbio gli gira in testa da un bel po’: pare che abbia a che fare con gli assurdi confronti previsti dallo show. Come si fa a paragonare il talento di una contorsionista a quello di un cabarettista? Chi colpisce di più, un ventriloquo come pochi o un cantante lirico impeccabile? Qualsiasi cosa pur di scacciare via la voce. Gogo. Non è la prima volta che sente il suo nome nel vento, ma svanisce in un attimo. Sa dove potrebbe condurlo tutto questo, e non vuole ritornarci.
Alla luce del sole la voce si fa quasi latente, tanto che ogni giorno si illude di averla domata. Ma di notte ritorna, e insieme a lei un buio così fitto da inghiottirlo. Gogo. Continua a ripetersi che non ha sentito quello che crede di aver sentito. E poi, sarebbe impossibile. Nessuno lo chiama più Gogo da tanto, tantissimo tempo.
Era il primo giorno di seconda elementare e la nonna di Clive Richardson gli aveva abbottonato la polo rosa dell’uniforme fino al collo. Erano seduti al tavolo della cucina a consumare una colazione a base di porridge e luccio, fritto dalla nonna la sera prima. Mangiando, Clive si allentava il colletto. La nonna, che trangugiava il pesce a grandi bocconi rapidi, gli afferrò la mano e la bloccò.
“Smettila di agitarti.”
Lui annuì. Era tutto così con lei, perentorio e straordinariamente immobile. Tolse la mano e continuarono a mangiare.
“Oggi ti farai degli amici. Bravi ragazzi.”
Era un suo vezzo, quel modo di esprimersi, come se il futuro fosse già scritto; come se non aspettasse altro che vederlo arrivare e fare il suo corso. Si era trasferito da lei da meno di un mese e, mentre sedeva in cucina, con le tendine di pizzo bianco che sbattevano contro la finestra aperta e il profumo di spezie e tutti gli oggetti al loro posto – la caraffa gialla con l’olio accanto ai fornelli, i fagioli in ammollo sul ripiano, la margarina nel piatto dai bordini rosa, sul tavolo – sapersi affidato alle cure di un adulto responsabile e padrone di una visione così lucida del mondo gli sembrava ancora un lusso inedito, miracoloso. Sarebbe andato a scuola e si sarebbe fatto nuovi amici. Lo desiderava con tutto se stesso. Ma era anche agitato, temeva che neanche il profetico annuncio della nonna sarebbe servito a far accadere una cosa tanto improbabile, visto che a sette anni non aveva mai avuto un amico. Non proprio. Se escludiamo Vaughn, che lo chiamava “ragazzone”, ma Vaughn era l’amico speciale di sua madre, quindi non contava veramente. C’era anche Jeremiah, quello che abitava in fondo alla strada, ma era troppo stupido e per Clive era mortificante pensare che una delle poche persone che poteva ritenere amiche fosse tanto stupida, quindi preferiva non considerarlo.
“S-s-sì, nonna,” disse.
Lei gli appoggiò il palmo sulla guancia. “Sei un bravo bambino, Clive.” Lui intuì che con quelle parole stava cercando di dar vita a qualcosa, di sbrogliare le matasse del passato fino a farne un presente preciso, ordinato.
Clive era andato a vivere con la mamma di suo padre quando la sua, di mamma, era partita per cercare lavoro a Saint Thomas. Suo padre era morto, ma non era triste, visto che neanche si ricordava di lui. Cosa che lo affliggeva perché aveva quattro anni all’epoca dei fatti, e ne aveva di ricordi di quell’età. Si ricordava del morso di una capra bianca e nera che sua madre sculacciò