Adesso va e viene come un fantasma. I coinquilini battono in ritirata quando vuole usare i fornelli o il bagno. Hanno un po’ paura di lui, un omone dallo sguardo minaccioso. Lui li lascia fare.
Al lavoro è uguale. Quando ha iniziato a guidare il taxi, alla rimessa c’erano tanti altri colleghi arrivati dalle Indie Occidentali, ma da allora i gruppi etnici si sono avvicendati più volte e ormai sono quasi tutti gujarati, sikh dal Punjab e da Chandigarh, bangladesi e africani dell’ovest. Se ne stanno tra loro e la differenza di lingua erige un muro che lo isola.
Di notte, a letto, sente contro la pelle le onde tiepide e gentili.
A volte l’acqua gli manca così tanto che per la nostalgia gli fanno male le ossa. Eppure, per assurdo, è circondato dall’acqua. A New York, non ha mai vissuto a più di otto chilometri da Manhattan Beach, appena più lontano dal mare di quanto non lo fosse casa di sua nonna. Durante i turni, trasporta i passeggeri oltre l’East River percorrendo l’acciaio corallo del Williamsburg Bridge, attraversando il Lincoln Tunnel sotto l’Hudson, supera l’Harlem River imboccando un numero imprecisato di ponti pittoreschi. New York è una città di isole. Al suo arrivo, aveva rimediato una vecchia guida nel cesto delle offerte di una libreria. Sul retro, insieme alle sezioni dedicate alle mance e allo slang, c’era una mappa. Manhattan e Long Island e la fragorosa Staten Island, quelle le conosceva. Ma c’erano altre isole di cui non aveva mai sentito parlare. Randall’s, Roosevelt, Ellis, Wards, Hart, Governors. E negli anni ne ha scoperte molte altre: North e South Brother, South ed East Nonations. Goose e Hog e Rat. Hunter e Shooters e Swinburne. Mill Rock e Heel Tap Rock. Le Blauzes, le Chimney Sweep, Canarsie Pol. Ruffle Bar e Rulers Bar, Hassock e Hoffman. U Thant e Mau Mau e l’isola di Meadows.
Eppure, anche se a New York vive su un’isola circondata da isole, ogni tanto – mentre cammina dalla rimessa alla N dopo un turno, o cerca d’infilare un grappolo d’uva in una busta di plastica al negozio coreano a Beverly, o quando il martedì scrosta il bagno – realizza che, proprio in quel momento, si trova su un’isola e non riesce a crederci. Fatica a percepire l’isolanità di New York.
Un giorno, era arrivato da due mesi, prese la metro per Coney Island. Non aveva mai visto le montagne russe e restò ad ammirare tutta quella gente urlante che sbandava sui binari di legno. Passeggiò lungo il pontile, comprò vongole fritte e un hot-dog con le cipolle da Nathan. Era settembre, faceva ancora caldo. Dopo pranzo, percorse la passerella fino alla spiaggia e si sfilò i mocassini. Raggiunta la battigia, fece un risvolto ai pantaloni e si addentrò in acqua di qualche passo. Ma persino allora, con il mare che gli lambiva le caviglie, gli uccelli marini che volteggiavano in cielo e l’odore salmastro dell’acqua bassa nelle narici, non era poi così convinto che quello che stava osservando, sentendo e annusando fosse proprio l’oceano.
A casa, anche senza vederlo, lo percepiva. Lo percepiva nel cortile della scuola, ne sentiva il sapore nel sangue del labbro spaccato dopo un incontro di boxe con gli amici. Quando all’alba inforcava la bici per andare al lavoro, l’oceano era come una calamita che in quelle lente pedalate spronava i piedi fino alla cima del pendio accanto alla torre radio e poi eccolo, il mare, disteso davanti ai suoi occhi come una rete. Ne avvertiva la presenza persino nelle zone interne dell’isola, nella cucina di sua nonna con le tendine bianche e il frigo arrugginito dal vento salato, Da Paulette dove con gli amici si scolava bottiglie di rum Cruzan e Bounty, e soprattutto tra le mura della prigione verdeazzurra di Commerce Street, dove ogni tanto appoggiava la guancia contro il cemento umido del pavimento e pensava alla sabbia bagnata che si modellava come seta a ogni passo.
Per lui, la vita laggiù e la certezza di essere circondato dall’acqua erano una cosa sola, sensazione che non si era reso conto di provare tutto il giorno, tutti i giorni, finché atterrato a New York ne aveva accusato l’assenza per la prima volta. E non solo perché a casa fiutava l’odore del sale ovunque, o sentiva le brezze umide provenienti dal mare o misurava la distanza dall’acqua in base ai cambiamenti di luce, mentre a New York, con la sua smaccata e superba indifferenza a tutto ciò che la circonda, non ci riusciva più. A casa, il mare