Saint X - Alexis Schaitkin Page 0,61

“Salve, salve, salve”, “Mi chiamo Emily”, “Oggi è giovedì” – per ricordarmi che ero ancora reale. Non sentii la sua voce, né mi capitò di cogliere altre prove del fatto che la sua vita avesse un legame significativo con quella di un’altra persona. Clive Richardson era un uomo nascosto in bella vista, che non attirava attenzioni e non lasciava traccia di sé nei pensieri altrui. Era un’isola, remota e impenetrabile.

Andammo avanti così. E qualcosa iniziò a sbloccarsi. All’inizio di ogni passeggiata, cadevo preda di quella paura che ho già descritto, un senso del pericolo rappresentato da Clive e dal rischio che correvo pedinandolo. Ma dopo mezz’ora, un’ora, l’esperienza mutava forma. Accadeva senza che me ne accorgessi, come quando dalla veglia si scivola nel sogno. Non avevo più l’impressione di seguirlo, ma che passeggiassimo insieme, collegati. Alla fine, persino il noi svanì; non eravamo più in due a percorrere quelle strade buie, ma una mente sola, un ricordo, che passo dopo passo dopo passo si sforzava di varcare un confine apparentemente irraggiungibile. Continuando a camminare abbastanza a lungo, venivo colta dalla certezza che non fossimo soli; eravamo osservati, seguiti da figure tremolanti ai margini del nostro campo visivo, velate di oscurità. Un braccio che si allungava, richiamando qualcuno. Un calpestio di zoccoli. Uno scroscio di risate che si levava dalle strade come vapore, per poi diradarsi. Shh, è un segreto.

Per Halloween, la vecchia signora del palazzo indossò un cappotto di lana sulla camicia da notte e si piazzò sulla scalinata d’ingresso con le sue sneaker bianche a distribuire caramelle a fatine e pompieri dall’aria sconsolata. Io avevo ricevuto un invito per una festa a casa di un amico del college, e decisi di andarci. Ero in debito con i miei amici, dopo aver ignorato messaggi e inviti; partecipare mi sembrava un buon modo per rifarmi viva. La festa si teneva tutti gli anni e in quelli precedenti avevo investito un bel po’ di tempo ed energie a ideare e confezionare un costume – se non sbaglio l’anno prima ero stata Frida Kahlo. Ma quell’anno non ne avevo né il tempo né la voglia, così indossai pantaloni e maglione marroni, staccai qualche rametto dal cespuglio davanti casa, e mi presentai vestita da albero. Il mio non-costume si rivelò un successo e sulle prime riuscii anche a divertirmi, assecondando quel ritmo sociale che mi era mancato, anche se non me ne ero accorta. Gin tonic nel bicchiere di plastica. Jackie che squittiva: “Ma che fine avevi fatto, bellezza?” accarezzandomi la spalla. Quattro chiacchiere impacciate con un tizio con cui ero andata a letto mesi prima. Insieme a un gruppetto di ospiti, mi arrampicai sulla scala che portava al tetto rosa pesca per rollarci una canna – il fumo e l’aria fredda e il suono limpido delle nostre risate sullo sfondo di una Manhattan che luccicava sull’acqua.

Ma quando ripiombai nella confusione accaldata della festa, mi sembrò tutto sbagliato. Mi guardai intorno: c’era una ragazza vestita da quadro di Warhol, la faccia ricoperta di punti rossi; Jackie era una “contadina sexy”, una velata critica alla moda del costume succinto che comunque non le impediva di scoprire la pancia. Nella penombra, il mio sguardo rimbalzava di volto in volto. Che ci facevo lì? Clive era là fuori, senza di me. Cercai di convincermi a restare, a divertirmi, ma con mio enorme sbigottimento capii di non poter più sopportare neanche una serata senza Clive. Me la svignai di soppiatto, senza salutare nessuno.

Ora lo so, ormai non tallonavo più Clive Richardson soltanto per raccogliere indizi, ma stavo finendo preda di qualcosa d’incontrollabile. Allora, mi rifiutavo di accettarlo. Se l’avessi fatto, magari tutta questa storia sarebbe finita diversamente.

Mi hanno massacrato dopo la pubblicazione del memoir. Dicono che l’ho fatto solo per intascare soldi. Mi hanno definita un’arrampicatrice sociale, una stronza assetata di fama, una che si scopa le star. Credo che nessuno di questi individui si sia preso la briga di leggere il libro; se l’avessero fatto, si sarebbero resi conto che ogni parola veniva dal cuore.

Dopo aver trovato la ragazza, sono andata in analisi. Ho lavorato con un life coach. Ho adottato una dieta vegana. Ho provato Xanax, Zoloft, microdosing. Mi sono avvicinata al reiki e ho partecipato a un ritiro meditativo di quattro giorni. Per un po’ ho persino seguito una guru. I suoi abbracci avrebbero dovuto guarirti, a prescindere dal motivo del tuo tormento. Durante il suo tour nordamericano, sono andata a trovarla allo Sheraton vicino all’aeroporto di Los Angeles. Ho fatto tre ore di fila.

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